Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Il pianello delle Sette Merende
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 44, p. 3
Data: 20 febbraio 1955


pag. 3




   Mi fa rabbia la primavera accivettata e commerciabile delle violette di serra e delle mimose di tepidario. Voglio salire invece al pianello delle Sette Merende per ritrovare un po' di selvatichezza burbera e qualche avanzo dell'inverno anticittadino.
   Sono condotto su una stradaccia di fango secco che va serpentinando tra roccioni sconnessi, incrinati e corrosi dai ghiacci; tra scoscendimenti biancazzurri, scarniti e scavati dalle piogge; tra pietraie sinistre, cosparse di tumuli erbosi e di arbusti arcigni dove, a quanto si dice, le volpi hanno le tane e le vipere i covi.
   E poi vado innanzi su prode molli e franose, su viottoli bui e sghembi, su sentieri invasi dalle felci intirizzite e dalle rovaie dispogliate, con tutte le spine di fuori e quasi feroci. A destra, in lontananza, la selva cupa e folta della Scapigliata che mi ricorda rosso di fragole, sciabordio di fossi, dolcezza di mani serrate, scoperte di fiori nuovi, risate di pazzia felice.
   A un certo punto, ogni traccia di cammino si perde: bisogna scavalcare tronchi di grossi abeti, sfracellati dalle bufere e squarciati dalle saette; saltare vecchie fratte scompigliate e prunose; guadare un torrentaccio melmoso e arrampicarsi su per un'erta di arenaria in frantumi e quasi disfatta, aggrappandosi a quercioli bassi e malvenuti.
   Ma finalmente ecco aprirsi dinanzi, in mezzo a due bastioni di boscaglia rugginosa e serposa, una valletta verde e benigna che è il famoso pianello delle Sette Merende. Sembra davvero, dopo tanta ostilità selvaggia e tanto affannoso strapazzo, una raccolta sala ospitale e quasi lussuosa, con i suoi tappeti d'erba fitta e asciutta, con i suoi giacigli di foglie secche, con i suoi cerchiellini di fiori acerbi e primaticci e soprattutto con le sue rustiche mense di pietra umida e scura posate qua e là, come per un banchetto di pastori in pellegrinaggio. Sopra una di queste tavole c'è un incavo naturale della pietra dove è rimasto un monticino di neve che fa pensare a una ciotola di sale bianchissimo ammannito lì da un provvido ignoto per un battesimo montagnolo.
   Seggo, con la mia compagna, sopra la più bassa di quelle mense. Intorno l'aria è gelata, il silenzio è perfetto, la solitudine è definitiva, ma il bel ciclo, in alto, un cielo inzaffirato dal sorriso di Dio, mi appare più vicino, più amico, più affettuoso.


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